Tunc mihi vita foret, vulgi nec tristia nossem
Arma nec audissem corde micante tubam
Tibullo
Immobile nel cielo posa
la luna. Gemma cesellata
nel nero dell’ultima notte
velata da una nebbia diffusa
nei campi
ultima notte
in cui le membra sentono
un diffuso torpore
e il canto, l’ululato dismesso
non certo dell’upupa che aleggia
sui sepolcri.
Dai campi biancheggia
il canto dell’usignolo.
Sento un fremito che si propaga
nel corpo,
sento una fragile capinera, il canto.
Rosseggia la mia parola
tra l’aria chiara,
fresca come rugiada
mentre un alito di vento bisbiglia
fra le frasche dei frassini
come uno spettro d’estate,
un profondo urlo
disveste la natura.
Sento il peso opprimente
di tutta la sua ansia,
i cipressi si piegano
al dolore di questa ultima notte
di pace.
Chiunque vada, “serbi religioso silenzio”
e purifichi la propria anima
secondo i riti desueti, quando io cerco
di far scorrere canti impetuosi
che travolgano i ciarlatani miei nemici
sballottandoli tra le onde
in mezzo alla tempesta,
adesso vedi che è beato
colui che non crede nell'età dell’oro,
tutto si consuma e perde volontà
di vivere, trema il cuore
nel mio petto, si affanna
il respiro fino allo spasimo
e alle alme prive di spirito
pronte a criticare, ricordo che,
con fervore, Byron disse: “è crudele calpestare chi cade”.
Da Gianluca Bisso, L'infinita vanità del tutto, 2019
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