Siamo all'inizio del Novecento, nei primissimi anni. Nel Bel Paese imperversa il dannunzianesimo, ma
un gruppo di giovani poeti, tra cui Sergio Corazzini, segna un nuovo percorso
artistico: il crepuscolarismo. Corazzini è un poeta destinato, erede in questo
senso della tradizione tragica greca: fanciullo
triste, come si definisce, costretto dalle circostanze a marcire nella povertà e a trascorrere l'adolescenza nella malattia, a
soli ventuno anni muore di tisi. Nel suo stile prosastico e semplice affronta
temi ricorrenti della corrente crepuscolare: la morte, il suicidio, la malattia,
una vita monotona e piena di sofferenza. Nelle poche opere pubblicate dal 1904
al 1906 con la Tipografia Operaia Romana e in una postuma curata dagli amici,
il giovane e tormentato poeta manifesta la sua rinuncia alla vita,
sperimentando anche simbolismo e decadentismo. Non avrebbe potuto neanche immaginare che
quelle poesie lo avrebbero consacrato come miglior poeta crepuscolare, ammirato, tra gli altri, da Antonia Pozzi.
Estratto paradigmatico
della sua poetica dalla poesia Follie (Dolcezze, 1904)
per me non v’è più sole,
per me non v’è più cielo.
Io sono come avvolto 5
in un sogno, in un sogno
triste; io non agogno
più nulla; io non ascolto
più nulla. Il cuore trema
a volte, forte: io penso 10
che sia la fine, io penso
l’unione suprema.
per me non v’è più cielo.
Io sono come avvolto 5
in un sogno, in un sogno
triste; io non agogno
più nulla; io non ascolto
più nulla. Il cuore trema
a volte, forte: io penso 10
che sia la fine, io penso
l’unione suprema.
Quietamente il bimbo a morte elesse
la giovinezza sua fiorente in vano 20
ne l’estasi d’un sogno sovrumano
che la fantasiosa anima eresse.
Una sera, s’uccise. Ne l’azzurro
passava e ripassava un’allegria
di rondini. S’udì nell’aria un pianto,
un grido, un tonfo sordo, un gran susurro
di popolo dolente... Ne la via
come il suo sogno, egli si giacque, infranto.
Da Spleen (Le aureole, 1905)
Oh, che tristezza! Pare,
nel biancore lunare,
malata di etisia,
con tutte le sue porte
chiuse, la nostra via
diserta e quel fanale 40
solo e torbido pare
che attendendo la morte
ne vegli l’agonia.
nel biancore lunare,
malata di etisia,
con tutte le sue porte
chiuse, la nostra via
diserta e quel fanale 40
solo e torbido pare
che attendendo la morte
ne vegli l’agonia.
Da Il Cimitero
(pubblicato postumo nel 1975; non inserito in una raccolta specifica dall’autore)
E pure io sono il morto
fra questi ignoti spenti,
e voi, morti giacenti,
siete i vivi! 16
fra questi ignoti spenti,
e voi, morti giacenti,
siete i vivi! 16
Da Sera della domenica (raccolta
“Libro per la sera della domenica, 1906)
il Poeta, ebro di morte,
viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni, 35
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!
viene a patti
con la Disperazione
che gli offre il domani con tutte
le sue piccole ire sorde,
le sue facili rassegnazioni, 35
mentre gli ride in faccia
perché non seppe ancora
morire di fame!
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